Io sono la mia potenza, la mia forza, la mia sicurezza. Io sono il fuoco domato che mi scorre nelle vene. Ho conquistato il mio regno e domino il mondo con il mio sguardo dritto, che tutto abbraccia, tutto contempla, tutto protegge.
Abbiamo percorso la stessa strada io e te un giorno, anche se il nostro tempo non era lo stesso. Il mio era quello di Giove, il tuo, quello di Marte. Regolati da lancette e meccanismi che giravano al contrario, forse all’opposto, orologi alieni l’uno per l’altra. Nel nostro tempo diverso se c’ero io non c’eri tu e viceversa. Tic tic avanti e tic tic indietro. Tu eri l’uccellino del cucù, che usciva dalla sua casetta stando ben attento a non essere visto. Tu eri l’uccellino che faceva cucù ogni volta che io non c’ero. Io, invece, ero la lucetta intermittente di una lucciola, che illuminava tutto intorno tranne il luogo buio dove tu eri. Prima che diventassi l’uccellino del cucù, e io la lucetta intermittente di una lucciola, la mia strada è stata però la stessa tua. Era un pezzetto piccolo di via sotto al sole che finiva dritta sotto il porticato di un palazzo in costruzione. Ne conservavo i tratti in un’immagine antica, ripiegata come un foglio in quattro in qualche angolo del cuore. Noi due ci guardavamo negli occhi e io avevo i capelli lunghi al vento mentre tu mi stringevi la mano. Te lo ricordi, sì, come eravamo? La mia strada è stata la stessa tua solo il tempo di un ricordo. Poi tutto è finito in un’altra vita e di noi non è rimasto che il fantasma, ad aggirarsi sotto il porticato di quel palazzo in costruzione mentre il nostro posto al mondo è diventato altrove. Il tuo, sempre quello dove io non ero. L’abbiamo percorsa al contrario quella strada sotto al sole. Mentre tu inesorabilmente la conquistavi, io inevitabilmente la perdevo. Da Giove provo adesso a immaginare quel tuo regno su Marte. Lo cerco guardando nel telescopio del mio cellulare, ma vedo solo stelle, un cielo nero e qualche aurora boreale. Il tuo regno lontano anni luce dal mio, io posso solo intuirlo. E le cicatrici che ti sono restate dopo i tuoi combattimenti per conquistarlo, soltanto, immaginarle. Ce le hai forse tutte esposte sul viso o nascoste nelle rughe delle espressioni che non vedo. Il tuo regno lo posso solo percepire. E’ racchiuso nelle parole che non dici e nei racconti dei tuoi silenzi. Specchi rotti ne riflettono i tratti, incastri di un puzzle da un milione di pezzi. Tu del tuo posto nel mondo mi hai inviato soltanto una cartolina con un francobollo virtuale. Mi è servita a poco, solo a immaginare. Quel tuo regno su Marte impossibile da valicare. Protetto da ponti levatoi che non si levano mai e dalle mura altissime e inespugnabili del nero del tuo cellulare.
Lettura di Germano Bonaveri