Io sono lo splendore e splendo e risplendo della gioia che emano. Io creo la primavera intorno a me nel mio regno, che è un piccolo giardino che contiene tutto l’universo ed è del colore dei miei occhi, da cui nascono tutti i prati e i fiori del mondo.

Tu però mi hai detto amore mio e deve essere accaduto qualcosa dall’altro capo del mio pianeta. Non so, un’esplosione, un maremoto, un cataclisma, qualcosa di grande. Una farfalla bianca, nel frattempo, mi si è poggiata sul braccio. Mi ha solo sfiorata e il suo tocco leggero ha coinciso con un’inondazione di colori dentro al cuore. Il battito delle ali ha abbattuto tutte le dighe e li ho sentiti che si spandevano, si allargavano, si mescolavano tra loro. Prima decisi e consistenti, densi, accesi e sgargianti poi via via più sfumati, come gli acquerelli. Mi sono sentita leggera, con gli occhi pieni di luce, la stessa che proveniva dalla corona del regno variopinto del mio cuore. Gli occhi me li sentivo di nuovo ben aperti e il mondo aveva contorni più nitidi. Tutto sembrava più deciso. Tu mi dicevi amore mio e io nel mio giardino rinascevo come una regina e rifiorivo come una rosa. Come una rosa mi sentivo infatti bella, anzi bellissima, ed era bello, anzi bellissimo, sentirsi così bella, anzi bellissima, tanto che camminavo a parecchi metri di altezza come un acrobata sul filo. Da quell’altezza non guardavo mai in basso. Il mio sguardo era sempre all’insù e, al massimo, se avessi guardato dritto, si sarebbe perso tra le nuvole del cielo. I miei dubbi e le mie preoccupazioni se ne stavano ben rintanate nel loro sarcofago, fasciate come le mummie. Da quell’altezza me le ero proprio dimenticate, in fondo alla mia borsa. Camminavo per la strada e se pioveva, la pioggia con le sue gocce mi faceva sorridere, mi solleticava, e se c’era il sole, i suoi raggi mi illuminavano gli occhi e se c’era il vento mi sentivo accarezzare la pelle dalle sue folate, anche quando erano fredde e mi salivano sulle gambe mentre camminavo per strada in pomeriggi d’inverno, scuri come la notte. Tu mi dicevi amore mio e tutto era pioggia che diventava sole, freddo che diventava caldo, vento che diventava cielo, notte che diventava giorno. Le mie preoccupazioni e i miei dubbi sprofondavano nella dimenticanza. Dimenticavo tutto e solo tu esistevi e le parole tue che mi dicevi. Tu che chi sa in quale vita lontana da me eri. A quanti chilometri di distanza e di tempo. Lontano, lontanissimo e nello stesso tempo vicino, vicinissimo anche se non riuscivo mai a toccarti. Sempre lì e qui, in un mare turchese d’estate a nuotare e nelle mie mani, su strade sconosciute a camminare e nelle mie mani, in altri occhi a guardare e nelle mie mani. Io raccoglievo le tue parole, le tiravo su come pesci nella rete e le riversavo nella barca del mio cuore dove quelle si spargevano guizzando, saltando, schizzando, boccheggiando prima di esalare il loro ultimo anelito vitale e morire, come sempre morire, nello schermo nero e spento del cellulare.

Lettura di Germano Bonaveri

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