Alla campata 7c della città dei morti il 7 di agosto c’è silenzio e caldo. Alle cinque del pomeriggio nessuna anima viva prega sulle tombe di quelle morte. Queste se ne stanno silenziose e immobili sotto il sole che ha seccato i fiori freschi e scolorito quelli finti. Tutto intorno è un tripudio di secchezza in vasi imperterriti pietrificati. Una quantità smisurata di fiori che sembrano aver attraversato epoche, secoli, incorniciando tombe e lapidi antiche. Tutto intorno il mistero del tempo. Fermato, marmorizzato, mummificato e che pur scorre, sempre inesorabile, con la sua scia di polvere e pietre e pezzi di marmi rotti sotto i piedi.  Alla mia destra, poco distante dall’ingresso principale, la camera mortuaria utilizzata solo per le operazioni di estumulazione di vecchie salme, quei morti di seconda mano che risorgono per il tempo di una boccata d’aria alla vita.

I vicoli di questa immobile città dei morti sono avvolti dal vortice di un silenzio rarefatto. Scorrono lapidi come pagine di un album fotografico lasciato aperto sotto il sole cocente di un’anonima giornata estiva. Nomi, date, fotografie con dediche: alla genitora, al figlioletto volato in cielo, alla moglie devota. Mi chiedo cosa sarà mai la campata 7c, che coordinata di questo cimitero rappresenti e mi infilo in una strettoia senza uscita, un vicolo cieco come la morte che ci campeggia dentro. Piccoli loculi addossati l’uno sull’altro di quattro bambini con il grembiulino blu della scuola elementare e mi chiedo se la campata 7c sia il vicolo cieco della morte cieca dei bambini. Un passo avanti sull’ascissa della vita rispetto alle sepolture di quelli mai nati, un orticello di piccole tombe allineate senza nome e, al posto dei fiori, angeli e giocattolini.

Riprendo il cammino tra i vicoli della natura morta dei ciliegi, dei cedri, dei mandorli. Passo accanto a inferriate di cappelle dalle quali si intravedono gli interni in penombra. Riconosco cognomi della città, qualcuno più altisonante è inciso nella pietra di piccoli mausolei dedicati alla famiglia tal dei tali. Sparse qua e là, statue di angeli di pietra annerita e qualche stemma. Per terra, davanti al portoncino della camera mortuaria, due lumicini rossi con la faccia di padre Pio. Il rosario di plastica nero non c’è più. Lo avevo sfilato dalle mani di mia madre il giorno del suo funerale per sostituirlo con uno di legno. Mi era rimasto nella borsa, poi lo avevo appoggiato sul comodino, poi lo avevo rimesso di nuovo nella borsa che non me la fidavo di vedermelo sotto gli occhi con quei grani di plastica nera che mi ricordavano le mani fredde di mia madre. Lo avevo alla fine lasciato lì, davanti a quel portoncino di quella camera mortuaria in disuso con tutto il suo arsenale di morte, compresa la salma di mio padre il giorno della sua estumulazione.

Era stata necessaria per tumulare quella di mia madre. Ci eravamo ritrovati davanti al loculo con gli addetti del Comune. Qualche colpo e il muro impenetrabile tra vivi e morti era caduto. Si era sgretolato facile facile e quei mattoncini erano caduti uno dopo l’altro sotto i colpetti degli operai comunali. La bara ne era uscita fuori malmessa. Tutto qui? avevo pensato guardandola così impolverata. Se ne era stata muta, lì dentro nascosta, per quarantadue anni. Un buco profondo quarantadue anni della mia vita che si riassumeva tutto in quel mucchietto di mattoni rotti, in quattro assi di legno sporco e consunto, in un abito nero ancora intatto e in qualcosa che un tempo era stato un volto. Bianco, completamente, inaspettatamente, bianco.  

La  saponificazione ce l’aveva poi spiegata l’impiegato comunale. Una reazione chimica che crea una specie di calco sul volto dei morti chiusi nelle bare. Su quello di mio padre a me era parso di riconoscere addirittura la forma dei suoi baffi. L’impiegato aveva poi accertato che la salma era ancora intatta e l’addetto delle pompe funebri aveva pensato al resto per la cremazione. La pratica si era conclusa anche se il tutto qui continuava a girarmi imperterrito per la testa mentre l’arsenale della morte veniva rinchiuso in quella camera mortuaria in disuso e a me era sembrato di averlo lasciato lì davanti a quel portoncino dalle inferriate scorticate tutto raggomitolato tra i grani neri del rosario di plastica sfilato dalle mani fredde di mia madre.

Guardo i lumicini di padre Pio e riprendo il mio cammino mentre penso al tempo come un elastico tirato per quarantadue anni che è improvvisamente tornato al punto di partenza, lasciato dalla mano che lo teneva teso sull’asse delle ascisse della vita, lì dove quello che avrebbe dovuto essere e non è stato si è ricongiunto a ciò che è stato e non sarà più. Un unico loculo per mio padre e mia madre, il punto esatto da cui ricomincia la mia nuova vita. Il silenzio avvolge ogni centimetro di questo posto. Tocco la lapide, accarezzo i volti giovani e belli dei miei genitori impressi nelle fotoceramiche che guardano malinconicamente verso la vita e mentre appoggio le mie mani su quella pietra nuova, una leggera e calda folata di vento mi accarezza. L’allarme della chiusura del cimitero mi distoglie. Mi incammino verso l’uscita e passo di nuovo davanti alla Campata 7c, quel pezzetto di un mondo che nella vita occupa solo lo spazio di una paura che si scaccia. Un’incursione non prevista, non contemplata, dal piano regolatore della vita.

Racconto finalista con menzione di merito al concorso letterario “Racconta le parole” IV edizione 2022 organizzato da Xilema.

 

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