Tempo fa mi colpì molto il commento di una autrice della rivista culturale Doppiozero, Anna Stefi, che, in relazione allo scritto di un altro autore, Andrea Pomella, commentava: “siamo una società che si vergogna, oltre che una società che soffre”. Una frase, questa, sulla quale ho meditato, riflettuto, scritto, parecchio. Alcune cose entrano dentro, germogliano lì dove trovano terreno fertile e questa questione della vergogna associata alla sofferenza è così dannatamente, fortemente familiare. Per un po’ mi girava per la testa sempre lo stesso concetto, tutto basato sul coraggio della propria malinconia. Ne è uscito fuori finanche un libro, non a caso piuttosto malinconico, pieno di suggestioni e sensazioni e pensieri e riflessioni. Il pappagallino verde che ne ha ispirato il titolo, lo guardavo dalla finestra del mio ufficio. Con il suo verde tropicale e sgargiante si stagliava nel grigio paesaggio, spoglio, autunnale e metropolitano. Mi restituiva precisa e assonante l’immagine del disadattamento che spesso coglie verso la vita, con la sua testolina a guardare giù il mondo, freneticamente attivo e in movimento sotto il suo ramo. Il mondo, quando si sta appollaiati sul ramo della propria malinconia, diventa in effetti molto distante anche quando è vicino, pure se scorre nelle pozzanghere sulle strade a pochi metri di altezza sotto quel ramo. La forza non sempre è sufficiente a rivendicare sé stessi, ad assumersi la responsabilità del proprio sentire, così spesso violentato dalla arroganza di una normalità del sentire che, tutta forte della sua mediocrità, ci pretende asserviti ad un unico, superficiale e omologato approccio alla vita. Da quella frase germogliata dentro di me è passato molto tempo. Tante cose sono accadute, eventi profondissimi hanno promosso i sentimenti e le considerazioni. Non so come queste di oggi si raccordino con quelle di ieri. Le vie del pensiero sono imprevedibili, a volte incomprensibili. Dalla malinconia si è approdati al vero e proprio dolore e oggi non saprei dire se le letture che entrano così profondamente dentro sono poi pur sempre filtrate e adattate dal nostro personale modo di percepire del momento. Ci avrei giurato che si parlava di malinconia, allora. E invece si parlava proprio di sofferenza e, dunque, di dolore. Le vie del pensiero sono molto larghe, a volte, come strade desolate sotto la luce accecante di un sole a mezzogiorno, ci assuefanno alla monotonia dei particolari, quasi che questi, seppur radi, scarni e insignificanti, potessero in qualche modo ostruirla quell’ampia visuale della strada, addirittura arrivare ad offuscare l’orizzonte. Ogni tanto però qualcosa la distoglie l’attenzione durante il percorso. Altri particolari, un uccello in volo, un rumore, un colore.  Oggi è stato il nero la distrazione dalla monotonia, dalla certezza del ricordo del mio pensiero. Ne parlavo con la mia amica Gabriella mentre cercavo di migliorare il mio umore, di risollevarlo guardando un po’ di verde degli alberi in giro. Mi sono distratta dai particolari scarni del mio pensiero parlando del nero e di quando un tempo si usava portarselo addosso in segno di lutto. Con Gabriella si è parlato allora di quando il dolore aveva un valore, di quando esponendosi, si riconosceva e, così evidente, finanche si rispettava. Oggi il dolore conta molto poco. Ci si sforza continuamente di nasconderlo quasi fosse una vergogna. Siamo una società in controsenso, “che soffre e che si vergogna”. Non si interagisce più con il dolore, si evita, si allontana, si nasconde sotto mucchi di colori. Si fa continuamente finta di fronte al dolore, che non esista e che tutto continui sempre ad andare bene. Oggi grazie a Gabriella e al nero ho avuto modo di rileggere con gli occhi di oggi quel pezzo, bellissimo, su Doppiozero ed ecco, mi sono sentita per questo contenta. E lo dico sincera, proprio senza alcuna ombra di vergogna.

“…Ho parlato della mia malattia attribuendole un volto, un carattere, addirittura una certa fama, il nemico sfidato a un interminabile duello, noi due da sempre spalle contro spalle, e, al segnale, caricare, sparare. Sparare in eterno, in eterno voltarsi l’uno verso l’altro, me stesso verso il mio nemico, la mia malattia, e ogni volta, all’arrivo del segnale, nell’atto di voltarsi, non trovare nulla, nessun nemico, solo un campo desolato, un refolo di vento, la pistola scarica che fa un roboante, gelido clic, e perciò chiedersi se il nemico non sia stato più veloce, non abbia sparato per primo, e quel non trovare nulla non sia in realtà nient’altro che la faccia spoglia della morte… “

Andrea Pomella – Storia della mia depressione www.doppiozero.com

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