Scrivevo cose così. Mi venivano in mente pensieri su mani, pesci fuor d’acqua, scarpe, pappagalli verdi sui rami grigi di inverno. Scrivevo dei miei dolori articolari, dei miei ingarbugliamenti mentali. Avversioni paranormali mi si palesavano in sensazioni di ostilità continua. Mondi virtuali sembravano fagocitarmi più del dovuto. La curiosità e l’attenzione verso quei mondi veniva masticata e ingoiata da mostri con bocche pronte a divorare ogni cosa: anime, cervello, sensazioni, sentimenti. Mi ritrovavo addosso uno stato d’animo indefinibile, come una palla di carta pesta fatta dell’acqua, della colla, della carta dei miei malumori depressi, compressi, repressi che non si delineavano fuori da me e si riversavano in parole prigioniere, assai controllate che non si lasciavano mai andare. I tempi in cui erano uccelli che volavano in cieli di carta erano lontani, forse smarriti, probabilmente mai esistiti mentre i malesseri dalle incerte sembianze continuavano a camminare radenti alle pareti della mente, sempre più incerti, senza connotati. Ci scavavano e costruivano nicchie in cui si accucciavano, accomodavano e spesso si accasavano. Me li ritrovavo lì, come barboni vestiti di stracci a trovare riparo sotto gallerie, lunghe e nere. I miei malesseri erano come poveracci con le coperte sulle spalle, rifugiati nei meandri ospitali del mio cervello. Si sistemavano lì e non riuscivo più a scrollarmeli di dosso.

Come un pappagallo verde su un ramo grigio di inverno

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