La mattina che finalmente decise di aprire le finestre sulla vita, pioveva a dirotto. Il cielo grigio, carico di acqua, copriva le strade bagnate e la pioggia fitta e cadenzata, con la sua monotonia, scandiva il trascorrere lento dei minuti. Qualche ombrello affannato camminava verso qualcosa. Passi svelti e decisi incontro a mete sconosciute, inghiottite dall’angolo del palazzo di fronte. L’aria fredda e umida gli entrò nelle narici e un breve fermento animò la sua apatica immobilità. Solo per un istante.

Da quando Paola lo aveva lasciato, la casa era diventata una sorta di tana, nella quale aveva trovato riparo dagli attacchi esterni della vita. Una ostinata indolenza si era impossessata di lui rivelandosi un’efficace arma contro il dolore. Lo aveva isolato, circoscritto, imprigionato. Tenuto sotto controllo, spiato notte e giorno da sentinelle fedeli: orari sregolati, pasti saltati, sigarette fumate ormai da sole.

Non aveva ancora ben chiaro a che punto fosse della settimana. E lì, immobile davanti alla finestra e alla pioggia, si sforzava di pensare a quale giorno potesse avere la faccia di quello che guardava. L’entità del tempo trascorso si manifestava con tutta la sua irrilevanza di particolare inutile. Lo squillo del telefono scalfì solo per un secondo il silenzio ovattato nella sua testa per perdersi nel vociare invadente di una stazione lontana.

L’altoparlante annuncia gli orari dei treni in arrivo. Non il suo, in ritardo di venti minuti. Un freddo cane attanaglia le ossa mentre valige, uomini, donne e  carrelli di operai addetti alla manutenzione schizzano  in un via vai continuo e senza sosta. Un inizio di emicrania si intrufola nel suo già definito stato di malessere, perfezionando i connotati di una giornata sbagliata. “Eurostar delle 14.45 proveniente da Milano in arrivo sul binario 2”. Si affretta con difficoltà al binario indicato dove il treno, con i suoi suoni metallici, è appena approdato. Paola è lì, con la sua valigia pesante, che con difficoltà scende gli scalini mentre, guardandosi intorno, cerca di individuarlo tra la folla. Per un istante i suoi occhi riaffiorano nella mente. Accecanti al punto da ripararsi.

“Pronto? Ce l’hai fatta a rispondere”. Una voce viva gli apparve piroettare con foga nel filo del telefono fino a sbattere contro quella sensazione avviluppata al cervello. “Scusa ero sotto la doccia”. Una boccata d’aria pulita ossigenò i polmoni dandogli tregua, mentre sua sorella, finalmente riconosciuta, si prodigava in una conversazione dai connotati tipici del monologo fatto delle solite domande a raffica, troppo impazienti per attendere una risposta.

Il giorno che aveva deciso di riaprire le finestre sulla vita, la pioggia era forse un monito, un avvertimento che al principio non aveva compreso. Aveva respirato l’aria umida del mondo convinto di alimentare l’intenzione di riprendere a vivere. E solo ora si rendeva conto di aver sbagliato momento. Che quella intenzione di “riprendere a vivere” era solo una frase non sua che risaliva a galla da chissà quale scomparto del suo essere. Avvertì la delusione che gli procurava l’aver commesso quell’errore di valutazione. E la stanchezza si impossessò di lui, rendendogli difficile qualsiasi tentativo di chiudere lì la conversazione-monologo di sua sorella che, come un fiume in piena, lo travolgeva con schizzi e schiuma conducendolo lontano in abissi fin troppo bene conosciuti. Il suo unico desiderio era quello di porre riparo al suo errore sbarrando le finestre e le porte al mondo.

Non ricordava bene come ci fosse riuscito.

Racconto premiato come finalista al concorso letterario “Racconta le parole”  I edizione 2018 organizzato da Xilema.

 

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