Fisso un punto nel cielo.

Il sole mi guarda di traverso nel suo lento calare sulle ultime ore del giorno. Assecondando il momento, accavallo le idee, facendole saltellare e giocare a nascondino. Mi rivedo da lontano, rimbalzando nella memoria. Saltare sui quadrati tracciati con il gessetto sui marciapiedi. Cercare i sassolini migliori, quelli piatti e quadrati per giocare a campana. Dondolare su ringhiere a fare capriole all’indietro. Con coraggio e senza paura di cadere. Quel coraggio dei bambini che gli anni seppellisce sotto mucchi di ricordi, talmente ammucchiati da non sembrare quasi più che un giorno siano stati momenti di vita vera.

Parole volteggiano in cieli di carta bianca, dipingendo quadri con sfumature di pensieri solo abbozzati. Guardo fiori e piante scagliarsi con i loro colori verso il cielo, uccelli che in picchiata volteggiano nell’aria. E mi chiedo se gli uccelli volteggiano in picchiata e in fin dei conti cosa significhi mai in picchiata.

Tutto si affaccia dove non saprei. Il cuore, la mente. Luoghi estranei eppur conosciuti. Frequentati ma non sufficientemente compresi.  Il soffio di questo vento caldo è piacevolmente invitante. Linguaggi sconosciuti animano il silenzio, rendendolo vivo e reale, come materializzato. E il mondo è così lontano pur nella sua vicinanza mentre i suoi contorni indecisi sono lì a perdersi nell’orizzonte. Tracciato dalla luce accecante di un sole. Che acceca e quindi non delinea, sfuma illuminando. Riscalda calando.

Trattenere la libertà di un momento imprigionandola nelle parole. Sforzo inaudito che non vale la pena di assecondare. Un momento dura solo un istante e la libertà è già volata via senza presentarsi, senza lasciare nemmeno un saluto o un biglietto da visita.

La vedo lontana che chiede un passaggio. Mi avvicino, correndo in un prato verde pieno di papaveri rossi che scuotono le loro teste dolcemente al sole. A braccia aperte verso il tramonto di una giornata d’estate, inciampo in balle di fieno soffici sulle quali mi tuffo come una piccola Heidi delle montagne svizzere. E di nuovo l’infanzia si riaffaccia alla memoria, questa volta nitida e precisa come uno schizzo di pittura sgargiante. Un divano con bambini incantatati davanti ad un televisore, con menti rapite dall’irreale fatto di montagne e neve di un altro mondo. Dove i panini sono bianchi e rotondi e le caprette fanno ciao. E i milioni di anni che separano da quei panini fluiscono leggeri come l’acqua di un fiume. Ettolitri di acqua fluita, tra l’oggi e l’era del passato.

Intanto gli ultimi raggi del sole cominciano a rendere tutto meno accecante. E il ridefinirsi delle cose è simile al ridefinirsi della ragione che sempre lì a sentenziare, monitorare. Come una sentinella ligia al dovere di esistere. Partorita senza essere voluta e sempre a lì a ricordare il non senso di certe cose e certe parole. Eccolo lì il sole, quasi calato dietro il comignolo di un palazzo di fronte, dove immagino ancora e di fretta una piccola casetta, con un piccolo letto, con una piccola finestra e un piccolo gnomo che saluta con la sua piccola faccetta.

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2 thoughts on “Al calar della sera”

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