Sul tavolino di vetro restano fiori, un po’ andati per il gran caldo. Ne ho preso l’altro giorno un mazzo per me e uno per Nella, che lo ha sistemato in un vaso rosso. Li osservo dal suo suo divano grigio mentre lei di fronte a me sulla poltrona mi racconta dei battibecchi sui fagioli dei suoi genitori. Il padre  li voleva asciutti e li mangiava ad uno ad uno con la forchetta e questa cosa la mamma non la poteva proprio sopportare.  Non riusciva a farsela andare giù  senza commentare mentre lui le rispondeva  “tu, per quanto parli, sindaco dovevi diventare”.

Nella ha novantasei anni e a me piace ascoltarla mentre mi racconta la sua vita. La ricorda perfettamente e non confonde il presente con il passato. Distingue, cioè, il moderno dall’antico.  Solo che suo figlio è morto non lo riesce a realizzare o, forse, è solo che non lo riesce ancora a dire. La parola “morto” le si ferma alla gola, con le lacrime che puntualmente arrivano prima.

A volte a me sembra una bambina. Vorrei accarezzarle la testa bianca e rassicurarla che suo figlio passerà presto a prendere le lenticchie che lei gli ha preparato nel barattolo di vetro.  Invece  mi racconta di averle mangiate lei, piangendo, perché la roba da mangiare proprio non ci riesce di buttarla.

Io me ne sto sul suo divano grigio cercando di consolarla e sento dentro di me che di questo luglio caldo, farlo, al di là di tutto, è  l’unica cosa giusta.

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