Stamattina, dall’attuale posizione di Roma sud dove ormai vivo da oltre un decennio, pensavo alla comodità di questa metraccia schifosa di Roma che d’accordo che è schifosa e anche metraccia ma per uno che ce l’ha vicino casa, in una città come questa, fa davvero la differenza.

C’è stato un periodo della mia vita, ormai lontano nel tempo, che ho abitato a Roma nord, sulla Cassia. Un periodo in cui, ancora molto giovane, la casa era ancora una questione provvisoria, scelta più per occasione o convenienza d’affitto che per altro. Quel periodo è durato all’incirca cinque anni, cinque anni durante i quali ho sperimentato tutti i possibili mezzi di collegamento tra quel punto di Roma e il centro: autobus, tram, metropolitana e chi più ne ha più ne metta fino ad arrivare alla scelta finale ed esausta della macchina per raggiungere l’ufficio. Scelta finale, poi, non priva di inconvenienti, considerando il traffico della mattina sulla via Cassia e dintorni e la mancanza di parcheggi del centro, ma comunque sempre meglio della più o meno ora e mezza dei percorsi sui mezzi pubblici.

Il collegamento tipo per arrivare in ufficio era infatti così articolato: autobus fino al capolinea di Piazza Mancini; cambio tra autobus e tram fino al successivo capolinea di piazzale Flaminio; cambio tram metro da piazzale Flaminio a via Veneto. Dopo un po’ di quella vita, prima di capitolare con la macchina, nella speranza di un’alternativa migliore a quella circumnavigazione quotidiana, un giorno provai a prendere il trenino Roma Viterbo che da piazzale Flaminio faceva la sua fermata a Tor di Quinto. Quel giorno era un giorno di inverno, all’incirca verso le sei del pomeriggio, quando fuori a quell’ora è già notte. Avevo appuntamento con Antonio che poco distante da li’ mi aspettava con la macchina. Entrambi quella stazione non l’avevamo mai vista seppur entrambi l’avevamo immaginata così come si può immaginare la stazione di un qualunque trenino metropolitano: schifosa quanto basta seppur al punto giusto.

La stazione di Tor di Quinto, invece, non aveva niente a che vedere con un qualsiasi punto giusto della vita. Perché quella stazione era un punto dello spazio sospeso nel tempo, isolato dal mondo, oscurato dal buio e abbandonato da Dio. Che poi a circa cinque, seicento metri da quel punto così ingiusto e sospeso della vita, ricominci la vita, poco toglie allo sgomento che ti sopraggiunge arrivandoci di sorpresa e da sola, di pomeriggio che sembra notte in inverno.

Cinque, seicento metri da percorrere su una stradina stretta e buia attraverso la campagna, a destra e sinistra insidiata da forme di alberi inquietanti, rumori sospetti che a tratti si sovrappongono al battito del tuo cuore accelerato. Cinque, seicento metri di puro terrore, per tornare alla vita e arrivare alla strada, al mondo, al volto conosciuto di Antonio, ad un sospiro di sollievo.

Erano quelli tempi non sospetti, la Raggi forse era ancora una ragazzina e quindi quello sfacelo di traffico e di collegamenti di quella parte di Roma non era ancora colpa sua. Così come non è stata colpa sua che da quella strada di quella stazione di Tor di Quinto, qualche anno dopo quel mio tranquillo pomeriggio di terrore, una povera donna alla vita non ci sia più tornata.

Una donna che da sola percorreva incautamente cinque, seicento metri di una strada che da una stazione di un qualunque trenino metropolitano avrebbe dovuto solo e soltanto riportarla a casa.

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