“Prendi queste 22 carte. Osservale una per una e poi dimmi che cosa significa per te quello che vedi […] Ciascun Arcano, essendo uno specchio e non una verità in sé, si tramuta in quello che tu ci vedi dentro.” LA VIA DEI TAROCCHI di Alejandro Jodorowsky-Marianne Costa
Io, prima di morire, non lo sapevo per niente dove volevo andare a parare e sarà stato forse per questo che cercavo di chiarirmi le idee penzolando a testa in giù come il dodicesimo degli Arcani maggiori dei Tarocchi, l’Appeso. La mia anima bramava tornare al cielo benché fossi costantemente tentata dalla terra, che mi tratteneva con il suo monito a rimanerle fedele. Avevo momenti di lucidità e chiarezza ma questi si corrompevano velocissimamente a causa degli annebbiamenti dei miei troppi e mal chiariti desideri. Desideravo infatti molto, senza pur tuttavia avere la più pallida idea di cosa io desiderassi. Non lo potevo accettare di non capire tutto il caos che albergava nel mio cuore e attraversavo misteriosi mondi pur di entrarci meglio dentro a guardare. Era allora tutto un turbinio che mi scompigliava la mente come i capelli. I Tarocchi erano il vento. Li guardavo, osservavo i disegni, i simboli, i colori e, pure se non riuscivo a tradurre a parole quello che mi dicevano, mi restava come un canto di sirene che, da qualche luogo lontano e profondo, mi richiamava. La mia posizione restava imperterrita quella dell’appeso. Anche per giorni io me ne stavo lì a dondolare a testa in giù guardando molto da vicino la terra, con i piedi assicurati al cielo. Passavo in rassegna il mondo che, per forza di cose, era necessario guardare a distanza parecchio ravvicinata. Da quella posizione pure le formiche si vedevano bene. Era un lavorio faticoso, che imponeva una certa dose di solitudine e pazienza. Antichi timori mi assalivano con agguati di inquietudine incappucciata che, da dietro le spalle, mi ricordavano paure e superstizioni. Le passavo in rassegna con la volontà di allontanarle. Occorreva infatti fiducia, pure se la terra ridimensionava parecchio i sentimenti di altitudine della mia anima. Questa si rimpiccioliva spesso e diveniva talvolta meschina, si abbandonava alle piccole cose che, viste da vicino, facevano parecchio rumore.
Io, prima di morire, ero una che temeva gli Arcani maggiori molto più dei minori ma solo perché questi non li conoscevo affatto. Quando qualcuno dei primi faceva poi capolino dal mazzo, speravo sempre che non fosse la morte. Un pregiudizio in linea con quelli della vita. “Coloro che mi assimilano diventano potenti” diceva infatti l’Arcano senza nome nel libro di Jodorowsky. E io, leggendo quelle parole, mi animavo di una singolare energia. Come se fosse quella la risposta a tutte le mie domande, la parola che mi mancava per completare una frase, quello che mi serviva per chiudere un cerchio. Io ero una che aveva camminato anni con le mani nelle tasche. E i miei cerchi erano rimasti tutti inesorabilmente aperti, soprattutto quelli che mi avevano colto alla sprovvista. Avevo allora percorso chilometri cercando Dio nell’asfalto. I miei occhi avevano raggi X che attraversavano il suo manto nero, entravano e si addentravano al buio verso il centro, lì dove il mio sguardo si aggrovigliava alle radici dei tigli che, sotterranee, si espandevano in basso ma avevano la potenza di rompere la strada. Non c’era forza che poteva trattenerle ma io, a differenza loro, avevo il cuore sepolto, e Dio non lo ritrovavo nemmeno per sbaglio. I tarocchi avevano a che fare con questo. Cercavo parole, almeno dentro me stessa. I disegni delle carte mi incutevano inquietudine, quella specie di tonfo nel cuore delle cose sconosciute, e mi sembrava ogni volta di essere uno dei due personaggi precipitati dalla casa di Dio. Quella carta era un vero e proprio monito, la rappresentazione nuda e cruda della mia caduta provocata dal buio del silenzio di Dio. Erano giorni che avevo di gran lunga superato il tempo del sospetto. Pomeriggi in cui giocavo a carte scoperte camminando ai bordi di un baratro che evitavo di guardare mentre in quella rappresentazione così antica dell’uomo, sentivo concentrata la storia della quale mi sarebbe piaciuto parlare.
Magari scrivendo di un amore dentro un cellulare che, come la vita, si sviluppasse tra l’inizio e la fine degli Arcani maggiori…