Ci sono anime naturalmente predisposte all’autunno, anelano da sempre ai suoi giorni soffusi, ai colori delle foglie che cadono dai rami, al cielo bianco e alla pioggerellina sottile. Anche dal sole a picco dell’estate della vita. E’ per questo che sono affezionata al mio libro “Come un pappagallo verde su un ramo grigio d’inverno“. Scriverlo è stato fermare il momento perfetto, né a destra, né a sinistra di nessun altro, dell’inverno in cui l’autunno mi stava entrando finalmente dentro. Fotografare i miei passi in quel momento, stamparli e impaginarli nel ricordo. Quando penso a questo diario tendenzialmente metropolitano, mi sovvengono dunque alla memoria passi, più che giorni. Quelli miei con la testa china a guardare l’asfalto. Era l’anno 2019 e la vita stazionava in luoghi di Roma dai particolari talvolta a-contemporanei, divenuti tutti nell’anno 2020 ex contemporanei, ritornati tutti nell’anno 2024 più o meno contemporanei: cabine telefoniche a Piazza della Repubblica, ristoranti giapponesi all’Aventino, negozi di souvenir in Via Cavour, autobus in Via del Corso, scale mobili rotte alla fermata della metro Barberini, semafori a Piazza dei Cinquecento, strisce pedonali bianchissime a Via Bissolati, negozi vuoti a Via Veneto, cartelloni pubblicitari alla stazione Temini, edifici disabitati a Garbatella. Erano giorni in cui pezzi di realtà mi venivano incontro dal finestrino di un treno in corsa e assonanze del presente mi facevano ritrovare ricordi di altre età, altri giorni e altri passi che, uno dentro l’altro, mi si aprivano in testa come matrioske. Pensieri perfetti mi rimbalzavano nella mente, prima di essere per sempre dimenticati, tra le andate e i ritorni sotterranei, nei vagoni affollati dove, appoggiata a gente sconosciuta, mi coglieva una sensazione leggera di origine iperuranica. Erano giorni in cui non si poteva cadere, nemmeno per le frenate degli autisti nervosi. La calca mi sorreggeva, una folla indistinta di umanità umana mi manteneva in equilibrio tra le sue mille facce brutte da metropolitana. Stivaletti idrorepellenti e ombrelli rotti mi riparavano dalla pioggia scrosciante di un novembre nervoso mentre la musica nelle cuffiette e la scia del profumo di sapone, che qualche signora che mi camminava davanti si lasciava dietro, mi trasportavano nel cielo azzurro delle serate di un bonario ottobre. La malinconia mi assediava prevalentemente tutto l’anno ma ricordo un particolare struggimento nei pomeriggi di maggio, quando, al tramonto, scendevo a piedi tra i palazzi di Via Cavour. In effetti tra quei palazzi lo struggimento lo provavo sempre. Solo con sfumature diverse a seconda che ci fosse l’ora solare oppure quella legale. Talvolta lo sentivo più lieve, ad esempio nei pomeriggi delle domeniche sul divano quando, tra pagine di libri amati, me ne andavo volando sui tetti di Parigi e Proust mi conduceva per mano nelle case di campagna della sua infanzia, su stradine brecciate e campanili di cattedrali di paesini. Al ritorno mi appollaiavo sul mio pensiero, appunto come il pappagallo verde su un ramo grigio d’inverno, e scrivevo di mani, di denti, di malesseri accucciati nella mente. E quindi di strade, di passi e di tempi andati. Di pozzanghere colorate all’ora del vago. Dell’ora del vago di mia madre. E già, erano giorni che c’era mia madre.
L’oblio purifica i ricordi, li ripulisce degli affanni di quei giorni, delle brutture, delle frenesie e lascia intatta solo la dolcezza della malinconia che mi avvolgeva durante quei passi verso l’incoronazione dell’autunno a re della mia vita. Oggi che leggo ancora Proust, che ancora lo struggimento mi pervade, ma con tinte ben più decise e non più sfumate, guardo al mio caro diario contemporaneo, tendenzialmente metropolitano con una grande tenerezza. Ci riconosco dentro un pezzetto del mio tempo perduto e i giorni del ricordo. Del regno del mio autunno amato…
Ahimè, poi la morte di mia madre. Ed è stato subito, maledettamente subito, inverno.
In riva al mare dei miei ricordi…