C’era un raggio di sole che filtrava da una serranda abbassata di una cucina, in alcuni pomeriggi estivi della mia adolescenza. Lo osservavo allungata sul pavimento, con quella sensazione di libertà che starsene stesi su un pavimento di una cucina può dare nei caldi pomeriggi di luglio. Mi fissavo sul pulviscolo che lentamente ondeggiava in quel raggio di sole sospeso. La storia della mia sensazione comincia da quel balletto di atomi di vita dentro un raggio di luce che, in quei caldi pomeriggi di luglio, mi pareva contenessero una promessa di un indistinto, vago, misterioso futuro. Il pulviscolo rianimava con la sua essenza. Mescolava gli atomi vitali che, ora lì, ora qui, si mantenevano nell’equilibrio stabile dentro la luce, riempiendo i buchi della noia di ore sonnecchiose e calde. La storia di una sensazione ha un inizio e in quello si replica all’infinito, quasi un c’era una volta di un c’era una volta di un c’era una volta. Il pulviscolo se ne resta sospeso nel c’era una volta una mia sensazione, in un fascio di luce che attraversava una serranda chiusa. E nella replicazione dei mille pomeriggi caldi dei mille luglio della mia vita, se ne sta ancora nella camera da letto di mia madre. Me la ritrovo come una vecchia conoscenza ma il pulviscolo ha oggi atomi di vita diversi. Si sono spostati, hanno mischiato le carte dell’essenza vitale e adesso attraversano il vuoto della mancanza che, così piena di sé stessa, riempie il vuoto della mancanza, quello dell’assenza. Così, in questo vuoto di mancanza di assenza riempito dal vuoto di mancanza di assenza, tutto è sempre lo stesso e non è più lo stesso. E il momento è un istante che  si ritrova nella traiettoria illuminata del raggio di sole che conteneva la promessa di un futuro che è già (tanto) passato. Le cose racchiudono segreti che non avevano, sono sempre quelle pur non essendo più quelle come, per esempio, la gallinella azzurra sulla credenza. Il pulviscolo della mia sensazione ci cade sopra e la trasforma, come tutte le cose rimaste di mia madre, come i suoi cassetti. Come quando non ricordo bene e quando mi sforzo di farlo mi pare di ricoprirla di idee che, a conti fatti, sono sempre e comunque le mie…
“Adesso posso aggrapparmi solo a quelle e sono così labili, indecise. Così poco nitide. Ci sono sogni ricorrenti, ecco in quelli miei ricorrenti non accade nulla, tutto è racchiuso in un tormento. Non riesco a ricordare. Non riesco a guardare. Non riesco a correre. Non riesco a camminare. Mi aggrappo, ora che non ci sei, alle mie idee che, alla fine di quei conti fatti, sono però come quei miei sogni ricorrenti: immobilizzate, sfumate, indistinte. E la mia memoria non mette a fuoco. Maledizione non mette a fuoco niente. Così penso e ripenso e mi sforzo di ricordare le cose che mi dicevi, i fatti che mi raccontavi e che mi sfuggono tutti, da tutte le parti. Hanno buchi, imprecisioni e mancanze e più cerco di guardare e recuperarne i dettagli, più quelle si slabbrano come i ricami dei merletti. Le mie idee, imprecise e piene di buchi, cadono su di te mamma, sulle tue storie, sui tuoi fatti e mi sembra che ti modifichino, ti trasformino nel mentre mi pare di non averti dato retta, mi sembra di aver pensato sempre ad altro. Io pensavo che ci saresti stata tu a riempirli i miei buchi. Che potevo permettermelo il lusso di non ricordare. Ci saresti stata tu a rimediare. E non so perché ma questo non l’ho mai messo in discussione. Come se, che tu te ne andassi, non fosse proprio un tema da trattare” …
Le mie idee labili – “Ora restano i fiori”